LE “SCINTILLE” DI LANFRANCO
L’ATTIVITÀ A BRESCIA
DI UN TEORICO DELLA MUSICA DEL RINASCIMENTO
di LEONELLA GRASSO CAPRIOLI
Lanfranco nasce circa nel 1490 a Terenzo, nei
dintorni di Parma. Probabilmente non trascorse qui la sua giovinezza, di
cui peraltro ci manca qualsiasi notizia certa.
Sul luogo della sua formazione musicale sono state avanzate tre ipotesi,
rese plausibili dalle vicende storiche della sua città natale (nel 1512
Parma passa dal dominio milanese a quello papale), e giustificate dai
riferimenti raccolti nelle sue lettere e scritti.
Forse Bologna, il cui Maestro di cappella era il parmense Burzio; forse
Milano, oppure Roma dove avrebbe incontrato il Willaert e P. Aaron ai
quali lo lega una lunga amicizia non solo professionale. Nessuna fonte gli
si riferisce come ad un ecclesiastico, ma tutto il suo vasto epistolario
(conservato nel Cod. Vat. 5318) riporta costantemente come data topica
cantorie e canoniche.
Quindi è probabile che, com'era allora costume di tanti musicisti, abbia
preso gli ordini minori.
Le congetture finiscono con la prima data certa che lo riguarda: è il 1528
e Lanfranco diventa Maestro di cappella nel Duomo Vecchio, sede episcopale
a Brescia.
Da undici anni la città è sotto la protezione della Serenissima e conosce
un periodo di grande splendore culturale e fortuna economica, Centro
musicale fiorente, è di grande rilievo soprattutto la produzione dei
maestri liutai e organari bresciani.
Le mansioni di un maestro di cappella consistono nell'insegnamento del
canto fermo e figurato, dell'intonazione dei toni salmodici, del
contrappunto e così via.
Dal secondo anno di servizio a Brescia il suo salario è di 180 lire plane
(50 zecchini veneti), come extra è costume fornire pane, vino e alloggio.
È la stessa somma che ricevettero il suo predecessore e successore: fatto
inconsueto perché di quei tempi, al contrario, è tipica l'estrema
instabilità delle paghe per musicisti e cantanti che subiscono variazioni
enormi nell'arco di poco tempo, completamente in balia delle disavventure
o fortune dell'economia cittadina.
A Brescia Lanfranco rimane forse fino al '36, anno in cui lo ritroviamo a
Verona.
Accusato di atti immorali, è costretto a fuggire nel '38 riparando nel
monastero di S. Agostino nei pressi di Bergamo.
Questo evento è testimoniato da un'emblematica lettera di Aaron che non
riesce a gettare una luce chiara sui motivi della fuga, anche perché poco
leggibile proprio in quel punto.
Risulta evidente piuttosto l'amicizia che li unisce, legame che non
vacilla, anzi si conferma nella sua forza di fronte ad un episodio grave
ed increscioso della vita di Lanfranco.
Nel 1540 si ristabiliscono le sue sorti ed è Maestro di cappella nella
Nuova Santa Maria della Steccata a Parma. Muore qui nell'autunno di cinque
anni più tardi.
Nel periodo che ci interessa Lanfranco dà alle stampe bresciane due
lavori.
Nel '31 un Rimario del Petrarca destinato agli studiosi ed imitatori del
poeta, nel '33 uno scritto di teoria musicale, "Scintille di Musica",
stampato presso Lodovico Britannico.
Il trattato è in quattro capitoli, corredato da molti esempi musicali ed
esercizi di invenzioni del teorico.
Nel primo sono esposti gli elementi base (figure, chiavi, solmisazione,
ecc.); il secondo affronta la discussione del problema ritmico di
interpretazione del tactus e delle proporzioni, con precisi riferimenti al
modo di battere il tempo.
È un sintetico, ma dettagliato panorama delle più probabili situazioni, e
relative soluzioni, nell'ottica della musica a lui contemporanea. Fornisce
inoltre importanti regole per la disposizione del testo sotto alla musica
che costituiscono forse il contributo più personale di Lanfranco. Il terzo
riguarda i modi ecclesiastici con un particolare riferimento ai rapporti
fra antifona e salmo.
Nell'ultimo parla del contrappunto e delle sue formule compositive intese
secondo le due vie della consonanza e dissonanza.
È poi inserita una sezione sugli strumenti (non menziona quelli a fiato) e
sulla relativa questione della loro accordatura.
Questione molto problematica per quei tempi che ancora non conoscono il
temperamento equabile e inoltre dispongono di sempre più numerosi tipi e
famiglie di strumenti diversi difficili da far suonare insieme. Parla con
molta stima dell'attività bresciana, citando per nome i due maestri liutai
G. G. dalla Corna e Z. Montichiaro e i fratelli Antegnati, G. Francesco
per i clavicembali e G. Giacobo, ricordato come costruttore dell'organo di
S. Maria delle Grazie.
Stranamente gli studi musicologici dei più grandi come Wolf, Reese e Sachs
hanno osservato solo parzialmente il lavoro di Lanfranco, di cui interessa
soprattutto la parte sugli strumenti e, poi semmai, quella sul tactus.
Le enciclopedie lo citano vagamente come teorico minore e l'unica analisi
più adeguata viene tracciata da C. Palisca nell'VIII volume del "Musik in
Geschichte und Gegenwart".
Effettivamente però, le conclusioni di quest'ultimo sono in netto
contrasto con quelle di Barbara Lee, autrice americana della tesi (1961)
che è attualmente lo studio di gran lunga più approfondito al riguardo.
In realtà Lanfranco merita non solo più attenzione, ma anche uno sguardo
più globale sulla sua figura di teorico e didatta.
Anche se nelle "Scintille" non aggiunge nulla che già Gaffurio non abbia
detto, risulta molto interessante la forma e la struttura atipica dello
scritto.
Infatti Lanfranco, con atteggiamento veramente sorprendente per quei
tempi, fornisce una lista minuziosa e precisa delle numerose fonti
teoriche cui ha alternativamente attinto.
È un elenco di dodici personaggi definiti "antichi" e "moderni" (fra le
due categorie corrono solo venticinque anni!).
Questo non solo motiva è ci documenta ogni sua asserzione, ma è per noi
importante specchio di un'epoca in cui la faticosa circolazione dei testi
rende difficile l'aggiornamento e l'informazione degli studiosi. Leggendo
in questa chiave ci risulta evidente, per esempio, che all'epoca della
stesura del trattato Lanfranco non ha potuto leggere gli scritti di un pur
grandissimo e divulgato Tinctoris, ma che lo conosce, solo attraverso
Gaffurio e Ornithoparcho.
Lanfranco appartiene a quelle generazioni di teorici che disponendo di un
linguaggio oramai invecchiato, legato anacronisticamente alla teoria greca
classica e medievale, si trovano in grosse difficoltà ad affrontare in
maniera adeguata la codificazione della sempre più complessa e fiorente
musica coeva.
Ma se nel fermento nebuloso della speculazione teorica dell'epoca
Lanfranco non si pone come rivoluzionario (secondo B. Lee è anzi
conservatore per formazione), egli si distingue senz’altro per volontà di
chiarezza.
È lui stesso ad annunciarcelo nell'introduzione al trattato, in cui rivela
la mentalità di un uomo pienamente rinascimentale.
Conscio del fatto che lo scritto è destinato ad allievi, Lanfranco si
preoccupa soprattutto della praticità ed utilità delle informazioni.
Opta quindi per il volgare settentrionale, non tralasciando di promettere
un secondo lavoro più vasto e approfondito che, quello sì, sarà in lingua
colta (purtroppo non ne abbiamo altra notizia.Forse non lo scrisse mai).
Cerca di evitare la verbosità pedante tipica dello stile disquisitorio del
periodo che considera deviante, e mira a scrivere con un linguaggio più
accessibile uno svelto ed efficace manuale di teoria.
In realtà Lanfranco va ben oltre, in fatto di qualità, alle direttive per
un corso di studenti ed è tanto maggiormente utile a noi proprio per il
piglio semplice e modesto unito ad uno spirito così spiccatamente
coscienzioso. |